Non sto piangendo per adesso, sto piangendo per tutte le volte che non l’ho fatto in passato.
Sto piangendo per quando volevo essere ascoltata e non l’hanno fatto. Per gli abbracci che volevo e non ci sono stati, per quando non sapevo proprio come cavarmela da sola, ma non ho trovato nessuno.
Sono una professoressa di Lettere e soffro di disturbo bipolare da 20 anni. Adesso sto bene, ho le mie autonomie e una vita abbastanza soddisfacente. Tuttavia, non sempre è stato così e ci sono voluti molti anni prima di giungere a questi risultati. Quello di cui vorrei parlare, infatti, è stato il mio rapporto con i miei genitori e di come abbiano dovuto affrontare la mia malattia.
Mio padre è nato nel 1940, mentre mia mamma pochi anni dopo la fine della seconda guerra mondiale. Entrambi sono vissuti in un’epoca in cui esistevano ancora i manicomi e inizialmente hanno percepito il mio disagio come se io fossi stata un alieno. Durante i primi anni della mia depressione sono stata abbandonata a me stessa: i miei professori del liceo affermavano che non fossi ammalata, ma che avessi le crisi depressive a scuola per attirare l’attenzione; il mio medico di famiglia non voleva prescrivermi psicofarmaci, mi dava solo integratori; i miei genitori pensavano che io avessi solo una crisi adolescenziale e avessi solo delle scemenze in testa. Tutto questo finché, dopo essere stata per anni vittima di bullismo, decisi di reagire e andare a fare l’Erasmus in Norvegia, stato di cui ho sempre avuto una grande passione perché ero fan di un gruppo musicale norvegese. Tuttavia, pochi mesi dopo essere tornata in Italia avevo smarrito me stessa ed i miei obiettivi. Mi sentivo come lanciata nel vuoto ed anche le mie amicizie non riuscivano più a capirmi, ragion per cui io reagivo con rabbia nei confronti degli altri.
La mia malattia non veniva capita, come non venivano capiti i miei comportamenti. Finché uno si ammala di una malattia fisica viene anche socialmente accettato, ma quando ci sono esordi psicotici o depressivi (come è capitato a me) allora spesso non si viene presi in considerazione. La mia fortuna è che proprio grazie a questi episodi psicotici, ho tentato di farla di finita e sono stata salvata dai Carabinieri della mia città. Il Maresciallo dei Carabinieri andò a parlare con gli psichiatri del centro di salute mentale del mio distretto sanitario e quindi fui presa in carico da loro. Ero molto giovane, avevo 22 anni. Fortunatamente la psicosi che mi ha colpito si è manifestata in forma acuta, quindi non si è cronicizzata. I primi tempi in cui sono stata presa in carico sono stati però veramente duri: dormivo 18 ore, ero apatica, facevo fatica anche a fare piccole cose quotidiane come lavarmi o andare in bagno.
Ma col tempo, grazie ai farmaci ed alla psicoterapia, gli effetti della malattia sono sempre più diminuiti, nonostante le mie autonomie fossero rimaste quelle che erano. Così il CSM ha voluto darmi fiducia e mi ha fatto iniziare un percorso di autonomia prima negli appartamenti protetti del servizio di salute mentale, poi in un appartamento in co-housing con altre persone seguite dal servizio. Devo dire che ci sono stati momenti con alti e bassi, ma è un percorso di vita che mi ha insegnato molto. Da qualche anno è venuto a mancare il mio papà, ed ora quel percorso mi è servito per sostenere mia mamma ed anche per capire maggiormente i ragazzi che seguo a scuola lavorando come insegnante.
Articolo di Rita
per il progetto “Attivismo Digitale”