È una raccolta di storie, diverse per ambientazione e tematiche, che raccontano la malattia mentale. Che poi, chiamarla malattia è già di per sé qualcosa che stona. Leggere queste storie, infatti, più che portarci a pensare alla malattia, a qualcosa di dato un modo univoco e chiaro, ci fa pensare alla complessità della sofferenza mentale, che è sempre un intreccio unico di fattori. E in effetti ogni storia, a partire dalla prima, autobiografica, dell’autrice, ex bambina anoressica ora giornalista del New Yorker, ci mostra la molteplicità di fattori che portano come esito una sofferenza psichica. In ognuna di queste storie si percepisce come gli elementi ambientale, sociale, culturale, relazionale si intreccino in mix unici e irripetibili. Nella donna indiana sacrificata alla vita domestica che manifesta un misticismo profondo che sfocia nella schizofrenia, c’è una predisposizione genetica o c’è una dimensione sociale di profonda solitudine e sacrificio che non viene tollerata da una persona magari solo più sensibile di altre, portandola a un distacco dalla realtà? Rimane sempre il dubbio, in queste storie esemplari, rispetto a qualcosa che ha una dimensione molto più articolata di quello che una logica riduzionistica ci vorrebbe fare credere.
Questo per me è il primo grande pregio del libro, che deriva forse dal fatto che l’autrice sia appunto una giornalista anglosassone, che del giornalismo di quel mondo si nutre e adotta magistralmente lo sguardo. Uno sguardo distaccato, lucido, imparziale, ma nonostante questo, o forse proprio per questo, che permette di empatizzare profondamente con i personaggi. Non c’è pietismo, non c’è nessun ammiccamento, nessun tentativo di sfruttare il dolore per attirare l’attenzione del lettore, che è invece catturata dallo sguardo cristallino di chi scrive.
Raccontare la sofferenza mentale in questo modo ci rende tutti partecipi: potenzialmente nessuno può sfuggire. E anche se questa è una verità che teoricamente tutti conosciamo, tante volte gli approcci più riduzionistici ci inducono a pensare di essere al sicuro. Invece no, ci suggerisce Rachel Aviv, perché ciascuno di noi è immerso in una realtà potenzialmente attivante.
L’altra grande cosa che questo libro riesce a fare è mostrare come la storia che ognuno racconta di sé stesso, in primiis perché quella è la storia che di noi ci viene raccontata, condiziona profondamente la nostra esistenza. “La psichiatria non è l’unica cornice di pensiero ad agire come un’arma a doppio taglio, offrendo una storia che può salvare una persona ma anche, in condizioni diverse, farla sentire sola e irrecuperabile”, scrive Aviv. È in questa dimensione del racconto di sé che nasce il sentimento di estraneità di cui parla la protagonista dell’ultimo racconto, Hava: “Credo di essere una di quelle persone che si capisce alla perfezione da sola, eppure sono straniera a me stessa”: c’è spesso un’autocomprensione profonda in chi soffre, che si accompagna però a un profondo sentimento di estraneità rispetto a un certo racconto di sé. Ed è questa crepa sottile e dolorosa che l’autrice riesce a illuminare tanto bene.
L’unico aspetto che non mi ha convinto è quello relativo alla farmacoterapia: c’è una critica piuttosto serrata e pungente nei confronti dell’uso e abuso di prestazioni farmacologiche. Da un lato sono molto d’accordo: bisogna stare attenti a non delegare al farmaco e soprattutto non abusarne; dall’ altro, anche per esperienza personale, posso dire che in certi casi il farmaco è davvero un fattore salvavita, ed è rischioso demonizzarlo.
E qui torniamo all’inizio da dove eravamo partiti: la sofferenza mentale è o non è malattia? Io direi che non è solo malattia, ma in molti casi lo è anche. Come ci mostra nel suo splendido libro Rachel Aviv, è spesso disadattamento, incapacità di adeguarsi a situazioni esterne oggettivamente degradanti, è ribellione sopita, è una risposta disfunzionale a dinamiche disfunzionali, è un’esperienza soggettiva ma con ricadute profonde sul contesto, ma è anche, in fondo, un po’ malattia. Forse è solo accogliendo la sofferenza mentale in tutti questi suoi aspetti che si può arrivare alla conclusione della psicologa Pat Deegan, a cui è stata diagnosticata la schizofrenia a 17 anni, citata nel libro: “Per quelli di noi che lottano da anni, la storia della restituzione a sé stessi non è reale.” E ancora, la stessa Deegan scrive paragonandosi a un amico paralizzato: “La guarigione non si riferisce a un prodotto finale o a un risultato. Non significa che l’uomo paralizzato ed io siamo stati “curati”. Di fatto la nostra guarigione è contrassegnata da un’accettazione sempre più profonda dei nostri limiti.”
E questo è, esattamente, il senso della recovery, lo spazio di cambiamento che la malattia mentale permette, che passa attraverso l’accettazione, la convivenza, il diventare meno stranieri a sé stessi.
Articolo di Camilla,
per il progetto “Attivismo Digitale”